Quando l’amore per la montagna è una sfida con se stessi
Fabio Meraldi, il “corridore del cielo” di corsa sulle montagne più alte del Pianeta. Lo sky-runner valtellinese protagonista di un’emozionante avventura ai confini con l’“aria sottile”
La parola a Fabio Meraldi …
“Negli Anni Novanta alcuni alpinisti con una mentalità “atletica” hanno iniziato a cimentarsi con la corsa alle vette. Lo sky-running moderno iniziò proprio in questi anni visto e considerato che “quello antico” è sempre esistito (vedi i contrabbandieri ed i cacciatori che “dovevano” correre in alta montagna).
Tra uno sky–runner ed un’atleta di corsa in montagna esiste una “vetta” in mezzo, mi spiego meglio. Il primo corre per arrivare in cima in termini filosofici, in termini sportivi, invece, le “race” sono definibili come corse in alta montagna (ai limiti del cielo – sky termine inglese), ovvero oltre i 2000m di quota e con dislivelli importanti e severi. Ho iniziato a correre in montagna proprio in questo periodo con il gruppo sportivo dell’Atletica Sondalo, successivamente diventato Atletica Alta Valtellina.
Tenacia, passione, abnegazione e soprattutto tanta sofferenza (e indescrivibile gioia quando si consegue un così importante traguardo), sono gli ingredienti che ti fanno “sentire” la montagna più vicina, più “amica” … insomma sono nato (in mezzo alle montagne) con l’istinto di salire (e di correre) i pendii e le pareti, dai più facili a quelli più impegnativi perché questa è la mia natura, la mia indole! In quei momenti provo una grande libertà – difficile da spiegare – è un benessere totale dentro ad un mondo che mi fa sentire “molto piccolo”.
Un episodio, tra gli altri, che mi ha segnato è stata la “salita di corsa” durante la conquista, da parte della mia futura compagna e attuale moglie, Manuela Di Centa, l’unica donna italiana ad avere conquistato il Tetto del Mondo e cioè l’Everest (8850m). Mi sono misurato con elementi naturali (freddo, vento, ghiaccio, neve, stanchezza mentale e fisica, etc.) che non perdonano, momenti che ti fanno assaporare, contemporaneamente, il gusto dell’impresa estrema, ma anche la paura di non riuscire ad uscirne “indenne” e quindi a portare nuovamente a casa la “propria pelle”, sensazione unica, forte ed irripetibile che in quei frangenti ti da una scossa adrenergica molto intensa e positiva, ma che nel giro di pochi secondi ti porta ad uno stato di “prostrazione” – abbattimento difficilmente descrivibile!
Credetemi, emozioni che ti rimango dentro come “macigni”, ma torniamo all’Everest. Correva l’anno 2003. Avevo smesso di gareggiare e di cimentarmi nelle sky-race. Decisi, allora, di intraprendere una nuova avventura al fianco di Manuela Di Centa in qualità di “organizzatore” di una spedizione alpinistica per supportare Manuela e contemporaneamente di “salire di corsa”, nel minor tempo possibile, la stessa vetta. Enorme impegno psico-fisico da Campo Base collocato a 5350m fino al Colle Sud a quota 8000m con un tempo stimato di sette ore e mezza. Ebbene, ho tentato l’impresa, ma durante la salita mi sono imbattuto in condizioni oggettive veramente molto avverse e molto pericolose che non mi hanno permesso di concludere nel modo che intendevo la “salita” all’Everest. Infatti, sono rimasto al Colle Sud (8000m) per due giorni dopo la parziale salita fino a tale quota senza ossigeno supplementare e, soprattutto, con poco da mangiare.
Contemporaneamente, Manuela riusciva a raggiungere la vetta dell’Everest. Non riuscendo a continuare nella mia impresa ho deciso di aspettare in discesa Manuela. Ricordo solamente di essere stato in una situazione molto delicata, ovvero attimi al limite della sopravvivenza e soprattutto con un pensiero ricorrente: quello di non fare più ritorno nel “mondo dei vivi”. La decisione, comunque, di non proseguire è stata francamente la più saggia anche in considerazione dell’abbigliamento che avevo appresso (indumenti molto leggeri, tecnicamente molto validi e legati al tipo di “scalata” che mi ero prefissato, ma non idonei ad una permanenza in alta quota). In questa occasione non ho mai avuto paura, né ho avuto la sensazione di avere fatto qualcosa di straordinario. Non ho mai perso la calma e sono rimasto sempre tranquillo.
Sono, insomma, un professionista della montagna che ha sempre cercato di “salirla” nel modo più naturale. Questa esperienza mi ha segnato nel profondo, proprio perché con l’Everest non si scherza: la vetta più alta della Terra, infatti, deve essere affrontata sempre (e sottolineo sempre) come un principiante e con estremo rispetto. Infatti, non sono riuscito ad arrivare in cima, segno tangibile che il giudice supremo è sempre Lui, ovvero l’Everest (non si può dire vado, salgo e scendo in 24 ore). Tutte le montagne hanno un loro ben preciso linguaggio: ogni montagna parla con molta chiarezza basta saperla ascoltare con molta attenzione, è l’unica cosa di cui sono estremamente sicuro perché le parole delle persone sono belle, ma sono “sole parole”. La montagna, invece, non ha bisogno assolutamente di parole, è sufficiente sentire quello che ti sussurra, quello che ti dice. Alla fine sarà solo ed esclusivamente Lei che deciderà il tutto. Concludo questa mia breve riflessione riguardo al fenomeno dello skyrunning con questa frase che mi sembra racchiudere quanto ho provato ad avvicinarmi al “limite umano”.
“Non conosco nessuno che sia arrivato in vetta e poi non sia cambiato – nel proprio intimo – anche solo un “pochino” … perché rimanere lassù anche per pochi istanti e vedere la luce che cambia in modo repentino, le nuvole che si formano sotto i tuoi piedi … ti fa sentire davvero parte di qualcosa che realmente è molto più grande di te”.