Jean Vigo e la sua poesia su cellulosa

Jean Vigo e la sua poesia su cellulosa

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Jean Vigo: storia dell’uomo reso popolare dalla sigla di “Fuori Orario”

Jean Vigo è stato un precursore del suo tempo. Dalla sua nascita, il cinema ha compiuto un lungo per corso di maturazione. Ha sviluppato personalità e generi differenti. Si è sonorizzato, colorato, smaliziato. Le inquadrature si sono fatte più complesse, arricchite di effetti speciali. Lo spazio e il tempo spezzati e ricomposti in nuovo ordine. Reazioni e sensazioni attaccano sempre più le viscere. Il consumo diviene oggi tascabile. Esistono però immagini sospese e senza tempo, sequenze di fotogrammi che ci appartengono indipendente mente dal quando e dal dove vennero impresse su pellicola. Jean Vigo, con il suo approccio libertario e poetico, ce ne ha regalate molte. Quattro anni di attività cinematografica tra il 1930 e il 1934, e solo “due film e mezzo” all’attivo. Un capolavoro l’Atalante, alcune scene del quale rese note al pubblico moderno dalla sigla del programma televisivo Fuori Orario, in connubio musicale con la Because the night della maledetta Patty Smith. E poi la morte, appena ventinovenne di Jean Vigo. Tubercolosi, che proprio i set umidi e lacustri dell’Atalante avevano contribuito a rendere acuta e, infine, incurabile. Quindi il mito, che lo rende una sorta di James Dean sul fronte oppo­sto della cinepresa. Jean Vigo deve la sua carriera al suo­cero, meritevole d’avergli regalato una cinepresa usata, e al fortuito incontro con Boris Kaufman, fratello del cele­bre regista Dziga Vertov. Trovandosi i due in una città che non amavano, Nizza, iniziano a girare le immagini che assemblate formeranno il documentario “A propos de Nice”. Influen­zato dalle teorie cinematografiche dell’avanguardia russa, il risultato ottenuto da Jean Vigo è un attacco sarcastico all’elitè d’oltralpe, tronfia nella sua politica coloniale e di riarmo, e incurante delle diseguaglian­ze sociali. Volti grotteschi, abiti da so­gno su fisici grassocci, donne che cambian vestito ad ogni inquadratura fino a denudarsi completamente. Lu­strascarpe e ballerine smodate. Diver­tenti sequenze, dove i turisti appena giunti in treno sono rastrellati dal crou­pier, o dove un corteo funebre viene velocizzato e fatto scorrer via perché non disturbi troppo. Le navi da guerra in manovra gettano sul futuro sinistri presagi. Dopo la commissione di un documen­tario sul campione di nuoto Jean Taris (dove apprende l’arte delle riprese su­bacquee che gli tornerà utile in futu­ro), Jean Vigo si cimenta nella sua prima opera narrativa.  E’ “Zero de conduite”, film sull’adole­scenza rinchiusa nei collegi, negata da un mondo adulto militaresco e pa­ranoide, soprattutto dimentico d’esser stato a sua volta bambino. La sceneg­giatura, alla quale imprime una linea di spontaneismo intriso di comicità, ri­sente di un coinvolgimento emotivo molto personale. Il padre di Jean Vigo, giornalista sotto lo pseudonimo di Mi­guel Almereyda, era stato incarcerato e ucciso dopo alcune critiche al gover­no francese, quando lui d’età andava per i dodici. Quattro ragazzi costantemente puniti dagli insegnanti del collegio, diretto da un nano altezzoso e barbuto, proget­tano la loro giocosa insurrezione con­tro il rigido regolamento interno. Cul­minerà tra la gioia di una lotta coi cu­scini, dove i sorrisi e lo svolazzare delle piume sono dati al ralenti. E dopo aver issato sul tetto della costru­zione la bandiera nera della pirateria, lanceranno nel cortile che gli ortaggi dov’è in corso nientemeno la visita del pluridecorato prefetto. Considerato lo spirito nazionalistico che accecava l’Europa in quegli anni, “Zero de conduite” di Jean Vigo viene bollato dalla censura come film antifrancese, e la sua proiezione nelle sale vietata. L’”Atalante” è una storia d’amore. C’è chi dice la più bella mai impressa su pellicola. Luis Bunuel, tra i più influen­ti e longevi registi della cinematografia occidentale, azzarda affermando – il cinema può andare avanti quanto vuo­le, ma non supererà mai o forse non raggiungerà mai un film come l’Atalan­te -. Certo è che a guardarlo ora ap­passiona nuovamente, appassiona nella sua leggerezza, nel suo sguardo poetico e sentimentale. Juliette, una ragazza di paese, s’inna­mora del comandante di una chiatta a motore che trasporta merci lungo il fiu­me. Il film di Jean Vigo inizia con il matrimonio dei due, e con lei che lascia la famiglia per vivere sulla barca assieme allo sposo Jean, e agli altri marinai: un giovane mozzo, il vecchio lupo di mare père Jules, e i suoi chissà quanti gatti. Attracca e riparti. Scarica e di nuovo carica. La routine della vita sul fiume, apparsa all’inizio così romantica, di­viene col tempo monotona. Juliette credeva di vedere Parigi, passeggiar per negozi e vetrine di moda. Ma Jean non ha tempo e queste cose, in fondo, sono utili solo a corrompere l’animo. Così lei si lascia affascinare dalle stranezze del vecchio marinaio e poi, più seriamente, dalla giovanile spensieratezza di un ambulante istrio­ne. Seppur tentata non cede, ma una notte fugge via sola. Parigi la chiama, e per la partenza della barca sarà certamente di ritorno. Il realismo, sostenuto dalla bravura degli interpreti, si scioglie in istanti di fantastica creatività, che navigano at­torno alla figura di père Jules. Quel vecchio dal ghigno sarcastico non è tutto a piombo. S’ubriaca ad ogni sca­lo, lotta da solo, infila la sigaretta nel­l’ombelico. La sua cabina è un ma­gazzino d’oggetti provenienti da tutti i porti. Nonostante i richiami del capi­tano, non riesce a separarsi da nien­te. Di un amico morto, conserva an­cora le mani in formaldeide. E c’è quel giradischi che suona usando un dito. Ma forse è solo fantasia. Jean si sveglia e Juliette non c’è. Te­stardo e orgoglioso fa partire l’Atalan­te con anticipo. Lei se n’è andata pun­to e basta. Appartiene al passato e non ci deve più pensare. Ci penserà invece eccome. Ci penserà tanto da non riuscire più a far altro. Ridotto dalla disperazione ad uno stato cata­tonico, si alzerà dal letto solo per tuf­farsi in acqua ad occhi aperti, cercan­dola nel fondo del fiume. Perché si sa, dentro l’acqua si può vedere la persona amata. E lei è proprio là, gli tende le braccia in abiti da sposa. Juliette ritorna al molo e l’Atalante non c’è. Disperata ritorna a Parigi, dove prima erano sogni e vetrine, ora c’è una realtà fatta di volti lugubri e insi­curezze. Ma nel finale père Jules la ritrova e la riporta da Jean. I due si scrutano per poi avvinghiarsi l’una al­l’altro nel bacio più bello. Il bacio del­l’amore ritrovato. Dopo aver concluso il film, Jean Vigo muo­re. Ma intanto alla produzione non piace. Lo smonta, lo rimonta più volte e cancella la colonna sonora di Jau­bert. Per renderlo più appetibile al pubblico inserisce la canzone “La chaland qui passe”, versione france­se di “Parlami d’amore Marilou”. Nel­le sale è comunque un insuccesso. Ma nella storia resta, e lascia il se­gno. Il cinefilo notturno Enrico Ghez­zi, nel presentarlo dichiara asincrono – Io lo trovo semplicemente: l’amore nel cinema, l’amore del cinema, il ci­nema dell’amore.