Un sorprendente Raniero Botti stupisce con le Sue immagini
Si suppone sia proprio d’ogni architetto accompagnare le ricognizioni e poi le tappe del proprio lavoro con una documentazione fotografica, ma che sorpresa le fotografie di Raniero Botti di paesaggi, metropoli rutilanti, distese immote e tumulti di una natura indifferente. Di lui si apprezza da sempre l’arditezza del concept nella progettazione delle varie hotellerie che ormai sono la sua alta distinzione professionale; tuttavia, le sue grandi fotografie, queste sono state la rivelazione, o almeno lo sono stati quei soggetti, quei tagli, quelle luci, di chi cerca d’altro dalla pur complessa lettura dei propri pensieri. Le fotografie di Botti sono di una ragguardevole perizia esecutiva che riscatta un vecchio luogo comune secondo il quale la fotografia (un agito meccanico) non può mostrare il reale che per quel che è. Alcune mostrano la familiarità dell’autore con la pittura, ma nel contempo il suo distaccarsene per frequenti smaterializzazioni concettuali, il suo tentare una liberazione da quella logica che vuole una buona fotografia, competere con un quadro o almeno con le sue funzioni. Non per questo rinuncia, Botti a cercare gradi sempre più complessi nella tecnica, ad indagare quella sorta d’alchimia in progress che sono i programmi di un computer, la macchina digitale, la stampa su materiali che impastano gli umori e i sapori di un suo mondo interiore, quello in cui anche la componente professionale ha una qual preponderanza stimolante: è di derivazione architettonica il carattere dell’immagine che fissa il groviglio dei rossi corrugati in posa, mastodontici totem di un quotidiano progettare. Per non dire della città svettante e allineata nei suoi sinistri bagliori di gelo lumeggiante, l’intersecarsi di prospettive impossibili di un celebre meccano che sorse all’alba della modernità l’esasperato taglio orizzontale in cui si intersecano il palpitare ritmato di luci che la città decontestualizzata riverbera in lontane scie di grafica allucinata. Non c‘è l’uomo, il faber, il viandante, ma c’è il suo occhio in esplorazione, a caccia d’immagini, di tanto in tanto, marca il territorio interiore con un segno colorato, individuazione, tangibile presenza nell’istantaneità dello scatto. L’uomo è raro nel girovagare dell’obbiettivo di Botti verso il mondo, e semmai in universi concentrazionari, tra luci pastose o sibilline. E’ nella musica per esempio, mai in posa, assorto sul bandoneón, velato da un sipario dove “….il Tango crea un torbido passato” per dirla con Borges, componente che nella fotografia illividita di Botti non c’è, come non c’è traccia di malinconia o struggimento, ingredienti fin troppo “pittorici” di quel ballo. Il suo fotografare è cultura visiva calata in una sua Modernità, con sconfinamenti nella ineffabile, volitiva Contemporaneità. Certo la Modernità, è più vicina ai miei sensi visto che lei, a detta di Baudelaire, è la metà dell’Arte e l’altra metà l’Eterno e l’Immutabile. E questi almeno evoca l’immagine del turbinoso cielo di Lanzerote che nulla ha di meteorologico, così come lo scirocco che muove fronde, piega erba e papaveri in quei dintorni capalbiesi tanto pieni di futuro come di passato, quello per esempio del Puccini cacciatore, battitore indefesso dei medesimi luoghi. Botti, il progettista della solidità, l’architetto voyeur (secondo Helmut Newton ogni fotografo lo è) che, fissato sotto traccia fotochimica il Tempo di una identità materiale, ce la restituisce oggi come immagine enigmatica.