Un omaggio a Klaus Kinski e ai suoi personaggi

Un omaggio a Klaus Kinski e ai suoi personaggi

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Kinski nel mirino

Un omaggio a Klaus Kinski e ai personaggi da lui interpretati nei film di Werner Herzog. Viaggio nel sodalizio regista-attore che ha portato sul grande schermo la ribellione dell’uomo contro le massime leggi della natura.

Erano le tre di notte quando squillò il telefono in casa Herzog. Werner, presumibilmente assonnato, alzò il ricevitore senza subito riuscire a comprendere chi cercasse di contattarlo, e nemmeno le sue intenzioni. Ma alla fine la situazione fu chiara: tra urla e frasi deliranti, l’attore Klaus Kinski gli stava comunicando di essere entusiasta della sceneggiatura, e di voler dare corpo ad Aguirre. Ebbe così inizio uno dei sodalizi regista-attore più intensi e tormentati del cinema del dopoguerra. I due già si conoscevano. A tredici anni Werner occupava, assieme alla madre e a due fratelli, una stanza di un grande appartamento di Monaco. Negli anni cinquanta la famiglia Herzog era molto povera, senza una figura paterna e con la madre che, con vari lavori, cercava di darsi da fare nella ripresa economica della Germania occidentale. Un giorno la pensionante presentò ai suoi ospiti un nuovo inquilino: Klaus, un ex soldato ormai trentenne con aspirazioni d’artista e un carattere un tantino scostante. Furono tre mesi di convivenza difficile perché, è lo stesso Herzog a ricordarlo, Klaus Kinski terrorizzò letteralmente tutti gli abitanti della misera pensione. Aveva scatti d’ira, era delirante e violento. Dal nulla, o per nulla, si scagliava contro gli oggetti con furia, distruggendoli fino ad averli ridotti in brandelli. Dentro di lui albergava irrequieto un animale. Un animale dal talento e dal destino tragico. Nel 1972, anno in cui i due si ritrovarono di nuovo insieme sulle montagne peruviane che facevano da set ad Aguirre, Herzog era ormai un giovane regista molto acclamato, pietra fondante del Nuovo Cinema tedesco. Kinski, invece, un attore di successo con decine di film all’attivo, compreso un significativo contributo allo spaghetti-western, dove interpreta senza scampo personaggi cinici e sgradevoli (Se incontri Sartana, prega per la tua morte – Sono Sartana, il vostro becchino – Prega il morto, ammazza il vivo…e pure una parte in Per qualche dollaro in più, diretto dal “padre del genere”, Sergio Leone). Se quello del connazionale Fassbinder fu il cinema delle donne travolte da passioni che finiscono per sfuggir loro di mano, la vertigine cinematografica di Werner Herzog ruoterà attorno alla sfida lanciata dall’uomo contro forze a lui immensamente sovrastanti. La natura, la morte, la storia e le leggi sociali si fondono nel loro essere antagonisti di un eroe solitario dai caratteri non sempre positivi, quando non essenzialmente negativi. Il personaggio herzoghiano nasconde un uomo votato alla sconfitta, che tuttavia persegue ostinatamente la propria allucinazione. Nelle sue vicende non appare alcuna possibilità di redenzione, o di riassorbimento nella società dei normali. L’immagine simbolo dello spazio-cinema diviene quindi il campo aperto in cui prende forma una natura selvaggia e incontrastabile, per certi versi oscena. Ma in basso a sinistra dello schermo fa sempre la sua apparizione una creatura minuscola che, grazie alla sua tensione verso la grandezza, riuscirà per qualche istante a rubare l’inquadratura, mettendosi arrogantemente in primo piano. Inutile dire che quest’uomo verrà ricondotto presto alla sua naturale posizione nel creato. Inutile dire che l’unico uomo capace di interpretare l’idea di Herzog diviene Klaus Kinski. Entrambi megalomani e fuori dagli schermi, regista e attore intrecceranno un rapporto di rispetto e odio reciproco. Litigheranno, si insulteranno, si lasceranno per lunghi periodi, fino a rincontrarsi di nuovo, per ben cinque film girati insieme. L’ uno consapevole che Kinski rimane l’unico interprete possibile per i suoi personaggi allucinati e maniacali. L’ altro sicuro che Herzog sia il solo regista capace di metterlo in scena esaltando la sua anima scura e maledetta. Aguirre – il furore di Dio – narra la storia  di un gruppo di conquistadores spagnoli che si addentrano nell’Amazzonia allo scopo di trovare l’Eldorado, la città d’oro leggendaria presente nei racconti degli indios. Spossati dalla fatica e dalle insidie di una foresta bruta e inospitale, gli uomini ricevono l’ordine di rientro. Ma il luogotenente Aguirre, ordito il tradimento verso la corona spagnola, assumere il comando della spedizione e conduce le sue truppe in un’avanzata che non lascia né tracce storiche né sopravvissuti. Nell’intenso e atroce finale la zattera dei conquistadores avanza senza guida lungo un fiume amazzonico. Gli ultimi uomini sono ormai morti per le frecce degli indios, la fame e le malattie, e il loro posto è stato occupato da una miriade di piccole scimmie. Ma Aguirre resta in piedi, il suo sguardo è sprezzante e completamente alieno alla situazione che lo circonda. Lui non si arrende. I suoi progetti rimangono la conquista dell’intero sud-america, e il divenire sovrano spodestando Cortes. Fin da questo film Herzog ebbe ben chiara una cosa: il suo non è un cinema di finzione. La ricerca di immagini pure e inimmaginabili,  abnormi nella loro realtà, imporranno agli attori la medesima fatica fisica e psicologica dei personaggi che sono chiamati ad interpretare. Le zattere in legno che discendono le rapide amazzoniche sono vere, e su di esse stanno uomini veri. Il pericolo non è qualcosa riprodotto nei teatri di posa, o con l’ausilio dei seppur ridotti effetti speciali dell’epoca. Esso diviene reale nella sua dose di rischio e paura che l’attore dovrà vivere sulla sua pelle per dare credibilità assoluta alla sua interpretazione. Si può quindi dire che il cinema di Herzog è un cinema documentario nel senso che, seppur basandosi su storie di fantasia, la sua realizzazione “accade” senza l’ausilio di trucchi di scena. Anche per Kinski, spirito selvaggio e animale, questo modo d’agire diverrà presto insostenibile. Credendo che Herzog sia impazzito, deciderà di fuggire. Carica quindi le sue cose su un motoscafo, ma il regista lo raggiunge e lo convince a restare. Con quale argomentazione? La leggenda vuole che Kinski sia costretto a finire il film recitando con la minaccia costante di un fucile puntato da sopra la macchina da presa. Ma la realtà non è così. Herzog fa semplicemente capire all’attore che il suo film è più importante di ogni cosa, anche della vita stessa. Se avesse lasciato la troupe non avrebbe esitato a sparargli in testa e a suicidarsi a sua volta. Lavorare con Kinski non era facile, e non solo per Herzog. L’attore non tollerava nulla che potesse mettere in ombra la sua recitazione (arrivò a dire che il suo volto è l’unico paesaggio degno di essere ripreso). Pretendeva la stessa sua dedizione alla storia anche da parte dell’ultima comparsa. Dal nulla scattava, urlava e veniva alle mani. La consapevolezza di essere immerso in un paesaggio vergine e immenso, che non poteva avere attenzioni e riguardo per lui, lo faceva imbestialire a dare di matto. Durante le riprese di Aguirre, Kinski si rese protagonista di alcuni episodi che hanno certo contribuito a creare il suo mito. Durante una scena che prevedeva un Aguirre infuriato contro i suoi uomini, rei di buttarsi sul cibo di un villaggio indios appena conquistato, Kinski prese il suo ruolo troppo seriamente e con un colpo di spada provocò una profonda ferita sulla testa del soldato-comparsa Pedro Gonzales. Ma non è l’episodio più grave. Una notte, in preda al delirio Kinski esplose tre colpi di fucile dentro il capanno delle comparse. Uno degli uomini all’interno, intento in una partita a carte, si ritrovò con una falange in meno nel dito medio. Dopo una pausa di riflessione lunga sei anni, durante la quale le strade dei due sembrano separarsi, il sodalizio Herzog-Kinski si riannoda con Nosferatu, il principe della notte. Lontano dal fascino prevalentemente fisico assunto recentemente, il Dracula interpretato magistralmente da Kinski è un personaggio debole, viscoso, reticente nel portare avanti la sua ineluttabile missione mortifera. Restando fedele al precedente capolavoro di F.W. Murnau (Nosferatu il vampiro, 1922) più che al libro di Bram Stoker, Herzog affermerà in modo esplicito il proprio legame con l’espressionismo tedesco e con le radici romantiche della kultur germanica. Il risultato sarà un’opera oscura e crepuscolare dove Kinski (in abito nero e completamente rasato) si costringe in una recitazione sommessa, espressione della malattia-maledizione del vampiro in ogni posa corporea. Nel filmato Kinski, mein liebster Feind (Kinski, il mio miglior nemico), assemblato dopo la morte dell’attore, Herzog riferisce con insistenza come il disturbo principale della personalità di Klaus Kinski fosse l’ego-maniacalità. Se è vero che l’attore si sia sempre comportato come un genio baciato da Dio, è altrettanto vero che la grandiosità di kinski risiede nel costante e durissimo allenamento a cui sottoponeva sé stesso, specialmente nel periodo antecedente alla fama. Arruolato nell’esercito tedesco, inizia a mettere in scena spettacoli teatrali all’interno di un campo di prigionia inglese. Alla fine della guerra mette tutto sé stesso nel cercare di divenire attore teatrale. Ha talento da vendere, ma si allena in recitazione senza sosta, per dieci, dodici ore al giorno. Il successo lo attende. La sua capacità e professionalità diviene indiscussa. I registi, compreso il grande Brecht, lo ricercano, i critici lo osannano. In una grande produzione teatrale interpreta pure il personaggio di Cristo. Ma le parti lo catturano, gli imprigionano la psiche fino a rendere troppo labili i confini tra lui e i personaggi che interpreta. E’ ancora Herzog a raccontarci un aneddoto a tal proposito. Quando Kinski arriva sul set di Aguirre, parlare con lui risulta impossibile per l’adiacenza del suo linguaggio con quello del Gesù dei Vangeli. Dopo Nosferatu, con appena cinque giorni di pausa, è la volta di Woyzek, storia di un uomo portato all’omicidio e al suicidio dagli scherni e dalle maldicenze di chi lo circonda. Ma l’apice dell’ideale cinematografico di Herzog e della catarsi interpretativa del suo attore sono raggiunti nel magnifico Fitzcarraldo,film che riceverà la Palma d’Oro al festival di Cannes . Qui Kinski porta sul grande schermo un sognatore claudicante che ha come obbiettivo la costruzione di un teatro dell’opera nel bel mezzo dell’Amazzonia, dove vorrebbe portarvi a cantare Caruso. Non trovando sostegno nei notabili locali per il recupero dei finanziamenti, Fitzcarraldo si imbarca in un’impresa ancor più titanica: ricavare la gomma dagli alberi di una vasta area, non sfruttata perché al di là di alcune rapide inaccessibili alle imbarcazioni. Ma per raggiungere la zona navigabile del grande fiume peruviano, la nave dovrà superare nientemeno che una montagna. Fitzacarraldo nella finzione, ed Herzog-Kinski nella realtà, convinceranno gli indios ad issare veramente il vascello sul pendio con un sistema di rudimentali tiranti. Alcuni indios moriranno per davvero nella magica impresa ed Herzog dovrà fronteggiare numerose accuse di sfruttamento. E’ il trionfo dell’ abnorme, dell’ assurdo, della sfida lanciata a viso aperto contro le forze della natura. Natura che però si ribellerà all’insolenza umana facendo trascinare via l’imbarcazione da una corrente impetuosa e nemica. L’impresa e i sogni di Fitcarraldo naufragheranno tra le note di Caruso suonate da un grammofono, mentre il film di Herzog regalerà agli spettatori una storia incredibilmente appassionante e alcune immagini tra le più vere e al contempo visionarie della storia del cinema. Anche per Fitzcarraldo leggende e aneddoti si sprecano. Herzog conferma ancor oggi come gli indios amazzonici gli avessero offerto la loro disponibilità ad uccidere Kinski. Nel filmato Kinski, il mio miglior nemico Herzog non risparmia critiche al  suo attore ormai scomparso. Nella sua autobiografia, Klaus Kinski definisce il suo regista un megalomane senza talento. E’ lo specchio di un rapporto fondato sull’insofferenza reciproca. Un fastidio protratto fino all’odio proprio per la consapevolezza che solo la loro unione avrebbero dato vita alle visioni di entrambi. L’ultimo lavoro dei due è Cobra Verde, la storia di un mercante di schiavi. Ma è chiaro che, in quella sorta di pazza alchimia, qualcosa si era rotto in modo irreparabile. Il film è slogato, la sceneggiatura presenta buchi vistosi, l’attore non riesce a rendere la grandezza tragica del suo personaggio. Nell’ultima scena Kinski cerca di trascinare una barca verso il mare. La spinge, la tira con tutte le sue forze senza riuscire a smuoverla, poi cade a terra esausto con la morte che sopraggiunge. E’ l’ultima ripresa del sodalizio Herzog – Kinski, metafora della fine (Kinski morirà due anni più tardi) di un cinema che ha realizzato l’impossibile.