Alfonso Vinci: l’Ulisse dei nostri tempi

Alfonso Vinci: l’Ulisse dei nostri tempi

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Alfonso Vinci, l’inarrestabile viaggiatore

Lacrime lucenti apparvero sulle maglie di ferro, che erano come una dura volontà umana  contro i sentimenti liberi delle cose. Uno, due, tre, quattro… quattordici diamanti di varia grandezza apparvero come una costellazione e il nostro urlo li vide nascere: un urlo che si propagò per l’Avekì e ne decretò la morte.

Siamo nell’Uriman, regione selvaggia e fino all’ora inesplorata della Gran Sabana venezuelana. Violata la formazione rocciosa del torrente Aweki, affluente del fiume Orinoco, tre uomini estraggono una quantità di diamanti che mai avevano luccicato neppure nei loro sogni. Ma per i cacciatori di pietre preziose la giungla e la savana, con il loro silenzio e le loro insidie, non sono poi così inaccessibili. Anche qui le voci corrono, e gli uomini accorrono in massa fino a trasformare l’Awekì in “bulla”. In spagnolo tumulto e schiamazzo, nel gergo minerario luogo di lavoro affollato. Ai primi arrivati resta la soddisfazione della scoperta, la fama, il rispetto, e una ricchezza proporzionale al tempo di lavoro riuscito in solitudine.

Il libro “Diamanti – a caccia di fortuna in Venezuela” è un’entusiasmante e lucida cronaca della scoperta del più ricco giacimento del Sudamerica. Partendo dai ricordi e dai suoi numerosi appunti di viaggio, venne scritto da uno di quei tre avventurieri qualche tempo dopo la favolosa impresa. L’autore è Alfonso Vinci, valtellinese di nascita, comasco d’infanzia, non localizzabile per il resto dell’esistenza. Nato a Dazio nel 1916, si trasferisce presto a Como con i genitori. Per lavoro, va e torna da Milano in bicicletta. Si laurea in “Lettere e filosofia” (successivamente anche in Geologia) e sul finire degli anni ’30 diviene noto come scalatore. Appeso alle pareti alpine, tra fatica e tensione, Alfonso Vinci medita una sua filosofia della scalata. Chiamato alle armi, Alfonso Vinci è con gli alpini dove continua ad arrampicare. Per le penne nere gira pure un film di propaganda: “Rocciatori e Aquile”, che negli ultimi anni di vita definirà “Una storia carica della retorica del tempo”. Più tardi lo si rintraccia sotto il nome di Bill, comandante partigiano nella divisione valtellinese della Brigata Garibaldi. Breve parentesi è un mese di prigionia a S.Vittore sul finire del conflitto. La montagna gli rimane nel cuore, sogna scalate alle vette della cordigliera andina. A Milano Alfonso Vinci conosce l’alpinista Giusto Gervasutti e concorda con lui una spedizione in Cile. E’ il settembre del 1946, Gervasutti muore durante un’ascensione al Monte Bianco. Ma Alfonso Vinci ha già il visto d’immigrazione in tasca e parte per il Brasile. Con sé ha un grosso baule di attrezzature da scalata. Lo venderà ad un rigattiere di Rio per cinquanta dollari. Giunto in Venezuela si rimette a studiare geologia mantenendosi con un lavoro alla Biblioteca Nacional di Caracas. Contemporaneamente, nel paese iniziano a girare le voci sui primi ritrovamenti di pietre preziose: oro e diamanti. I giacimenti sono localizzati in zone dell’entroterra crudeli e selvagge, fiumi e giungle dove convivono feroci creature, animali e indios che di contatti con i “barbuti” ne hanno avuti ben pochi. Ma la febbre scoppia e uno come Alfonso Vinci non può che esserne contagiato.

Non vado in giro per cercar diamanti, ma cerco diamanti per poter andare in giro

E’ qui che inizia “Diamanti”, all’interno di un piccolo velivolo di trasporto merci che perde quota dopo aver perso un motore, da una grassa negra che ride, da un compagno di viaggio in preda a crisi epilettica. La destinazione, al dì là della selva di Carabobo, è il centro minerario di Icabaro. A Icabaro Alfonso Vinci apprende veloce le tecniche e l’uso della batea, della zuruca e degli altri strumenti di setaccio. Le sue conoscenze geologiche e la durezza della pratica quotidiana lo portano a decifrare i segni delle formazioni rocciose, fino a riconoscere a prima vista quello che chiama “paesaggio da diamante”. Ma non è certo un percorso facile e immediato. Tra l’arrivo a Icabaro e la grande scoperta nel cuore dell’Uriman trascorreranno molti paesaggi, fatiche, avvenimenti piacevoli e ben sette anni di vita. Sette anni di esplorazioni attraverso piche (sentieri) aperte a colpi di machete nella fitta vegetazione tropicale, di risalite dei corsi dei grandi fiumi con la curiara, imbarcazione indigena. La giungla. Sensazioni fobiche per l’assenza di luce, scoppi di disperazione. La fiacca che inebetisce la mente e porta l’uomo a sentirsi un elemento inutile all’interno di un panorama troppo vasto, troppo complesso per esser razionalizzato nel suo insieme. Fame. Una fame sommersa e mai saziabile dovuta all’abbondanza di frutta e alla scarsità di carne. E poi animali tormentosi e osceni, come i serpenti, le vespe o la formica 24, il cui morso provoca paresi per le ore del nome. L’unica fortuna è non esser solo. Il lavoro e le insidie uniscono gli uomini della miniera, e Alfonso Vinci ricorda l’amicizia stretta con personaggi indimenticabili. Ma per Alfonso Vinci la conoscenza più importante è quella con Cardona, non un minatore disperato, ma un esploratore spagnolo alla ricerca di esemplari botanici per il governo venezuelano. Alfonso lo convince a portarlo con sé e con la sua corte di indios arekuna in una spedizione verso la sorgente del fiume Caronì, sull’Auyàn-Tepuy, una delle più alte montagne tabulari del Sudamerica. Per gli indios di quei luoghi una Montagna Sacra la cui ascensione desta l’ira dei Maguariton, gli spiriti maligni. In preda al terrore della punizione divina avanzeranno a fatica, cercando di sabotare la parte finale del viaggio. Alfonso Vinci diviene quindi il secondo uomo bianco, dopo Cardona, a calcare il terreno di quelle terre vergini. Durante la spedizione non perde di vista lo scintillio del suo scopo, studia i panorami, tasta i terreni, annota le storie raccontate da qualche primitivo che habla espanol. E si fa un’idea abbastanza chiara di dove scovare il giaciglio di quel miele di cui parla Chimiglio. Poco tempo dopo la scoperta, Awekì è un centro minerario di tremila abitanti. Ma l’Awekì è all’interno di una zona protetta. Scavare e setacciarne il greto del fiume è qui illegale. Il Governo manda una pattuglia che, Vinci sa perché, non fa ritorno. Ma poi è l’esercito a intervenire per sgomberare le miniere abusive (saranno per decenni sfruttate dai militari). Il valtellinese ha il tempo di fuggire attraverso la giungla, con sé ha una bottiglietta di Coca-Cola colma di pietre preziose. Pochi giorni dopo è a Capri – allora era di moda – a sperperare, ma con coscienza.

Ci si trova comunque uomini, sotto tutte le latitudini e in tutti i terreni. Non dobbiamo rispondere a domande con affermazioni o negazioni, ma solo con altre domande che portano avanti la nostra esistenza oltre i fiumi, le montagne, le palme nel vento e i giorni di solitudine.

Raggiunta la ricchezza, diverrà consulente per grandi aziende idroelettriche, lavoro che gli consente di visitare molte altre zone del pianeta. Professore di Geologia all’università di Caracas, Alfonso Vinci non abbandona l’interesse per le zone selvagge del pianeta e per le popolazioni indigene che le abitano. Organizza diverse spedizioni nell’entroterra venezuelano studiando i costumi e i linguaggi di diverse tribù indios. I Makiritari, grandi navigatori dei fiumi, artigiani eccelsi e costruttori di case – capolavori di architettura forestale e di complessità sociologica -. Gli Scirisciana, dalla casa inesistente e accecati dal coroto, nome dato a qualsiasi cianfrusaglia in possesso dei “barbuti”. Veri e propri accattoni della foresta che con la loro pressante esosità costringono gli esploratori a fuggire in canoa con una pentola di spaghetti in cottura. Ma Vinci vuole spingersi ancora più in là. Raggiunge la tribù dei Samatari, gli uomini scimmia, chiamati così dagli altri indios per le urla animalesche con cui strutturano il loro linguaggio, oltre che per la loro leggendaria crudeltà. Assieme all’amico di sempre Enrico, Alfonso Vinci viene sequestrato dai Samatari che lo scrutano in gruppo, lo derubano degli abiti, gli si strofinano contro cercando contatto con una creatura dalle fattezze sconosciute. Col tempo i due occidentali sono integrati nella tribù, visti come gente un poco strana ma comunque ben accetta. Prima di poter far ritorno, non senza qualche sotterfugio, dovranno passare molti pulipuli, molte lune (il contatto con questa selvaggia tribù è raccontato nel libro Samatari). Ed è nel tentativo di raggiungere le zone civilizzate che Alfonso Vinci ha la fortuna di imbattersi in un indios-canaima, un reietto, scacciato e cacciato da tutti, costretto a vivere solo e impaurito nei nascondigli offerti dalla foresta. Morto nel 1992, chi ha conosciuto Alfonso Vinci racconta di un uomo schivo e libero da complessi, pronto a mandare a quel paese chiunque ponga problemi inutili.

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